Originali Netflix – Ovvero: Come ho imparato a preoccuparmi e a temere la bomba

Ciò che segue non vuole essere né una statuizione, tantomeno una sentenza. La pagina che vi trovate davanti si propone di essere niente più che uno spunto di riflessione, magari un invito al dialogo.

Quello che state leggendo è la risposta che, condannato come sono all’eremitismo causa studio, mi vedo costretto a dare da solo alla domanda che porrei ad un amico davanti a una birra, o ad una coca-cola, se siete tra quelle persone stravaganti alle quali piacerebbe soltanto vedere bruciare il mondo. E la domanda è la seguente: Ti senti soddisfatto dalle più recenti produzioni di mamma Netflix?

Da strenuo difensore della titanica piattaforma di streaming, sin dai tempi nei quali la stessa nemmeno era presente nel nostro paese, ho sempre avuto il dubbio, più che la consapevolezza, di fare buon viso a cattivo gioco rispetto ai suoi prodotti. In altre parole: mi sono sempre chiesto se, pur trovandomi di fronte a realizzazioni magari mediocri, inconsapevolmente mi stessi convincendo che il film o la serie appena vista fosse di ottima fattura, soltanto perché partorita da una casa di produzione sulla quale ho sempre riposto grandi speranze.

Ora, il discorso che desidero imbastire non voglio che tracolli nel suo parallelo, relativo alla forma strettamente televisiva e non cinematografica delle ‘pellicole’ disponibili in streaming. Forma che sempre più spesso costringe anche registi o interpreti di grande caratura a piegarsi alle nuove esigenze commerciali, piuttosto che lasciarsi ad una più ampia libertà artistica. Discorso parallelo, appunto, e probabilmente anche più elevato; ma, ripeto, non centrale per il nostro ragionamento. È chiaro: Netflix produce lungometraggi e serie televisive che rispondono ad una pura e semplice esigenza di intrattenimento e ritorno economico. Molto difficilmente si possono riscontrare innovazioni del medium dal punto di vista tecnico o concettuale in queste opere, ma tant’è: chi si abbona a Netflix, io compreso, sa che cosa sta comprando.

È quindi tenendo a mente questo punto cardine che possiamo finalmente iniziare a snocciolare alcune delle più importanti realizzazioni rilasciate negli ultimi mesi sulla piattaforma, così da confrontarle tra loro e cercare di scovare un pattern di ascesa, costanza o tracollo. Un’ultima premessa che funga anche da mea culpa: l’isolamento da sessione di settembre non mi ha ancora permesso di recuperare la serie dei Defenders, e tantomeno il chiacchieratissimo lungometraggio su Death Note. Lungi da me, poi, fingere di aver usufruito di ogni prodotto targato Netflix, ma sento di potermi dire adeguatamente aggiornato rispetto ai principali.

(Fu in questo momento che, colui che scrive, si rese conto di aver appena intrapreso una strada perigliosa, piastrellata di flame e fanboysmo, destinata a concludersi alternativamente con una ridondante lista di film e serie affiancati da superficiali considerazioni oppure con un pippone noioso e sconclusionato, ma in entrambi i casi sicuramente dimentico di qualche prodotto. “Ma ormai siamo qui”, disse tra sé e sé..).

Ho deciso di procedere alla raffazzonata analisi tramite un sistema che provvederò a brevettare sotto il nome di “Uno schiaffo per ogni carezza“. Vi propongo quindi nelle prossime righe i prodotti accoppiati tra loro, senza badare alla tipologia, e nemmeno allo scarto di ‘bellezza-bruttezza’ che intercorre tra i due. Molto semplicemente, proviamo a vedere se ogni macchia (da me ricordata) sul catalogo di Netflix può essere lavata via da un prodotto di segno opposto.

Partiamo con due serie alle quali sono personalmente affezionato per ragioni diverse, da una parte “Black Mirror”, intesa nella sua ultima stagione (unica Made in Netflix) fatta di una manciata di puntate ben realizzate ma fastidiosamente traditrici di uno spirito da sempre proprio delle stagioni originali, dall’altra “Orange is the new black”, serie portatrice di vicende di volta in volta più coinvolgenti, talvolta poco credibili, ma sempre piacevoli da seguire, a maggior ragione sei in compagnia.

Di “Iron Fist” nemmeno ne voglio parlare perché mi annoierei tanto quanto durante la visione, grazie al cielo esistono bombe come “Narcos“.

Già che parliamo del biondo col drago sul petto, tanto vale parlare del bestione di Harlem. Sicuramente “Luke Cage” porta con sé soddisfazioni maggiori rispetto alla serie su generici occidentali che si improvvisano maestro di kung fu, di cui sopra, ma conferma il tracollo qualitativo delle storie relative ai supereroi Marvel. Una conferma fatta di momenti di imbarazzo e grandi sbadigli. La botta di vita, invece, la si riceve con lo spettacolo spesato da Netflix che vede protagonista sul palco l’intramontabile Louis CK.

Mi piacerebbe potervi dire di più su “Una serie di sfortunati eventi“, ma non ho la più pallida idea di cosa succeda dopo la quinta puntata, e non mi interessa saperlo. Per quanto osteggiata, mi sento invece di promuovere la discussa “13 Reasons Why“.

La butto lì, sento odore di zolfo al solo nominare il film di “Death Note“, e mi giungono peraltro accorate conferme che la fonte dell’olezzo sia proprio quella. Consiglio di spazzare via il tutto con la ventata di allegria portata da “Dirk Gently“. Per carità, la storia di “War Machine” sarà anche interessante, ma a forza di cercare le mie palle che erano rotolate in fondo al salone devo essermi dimenticato due terzi del film. Grazie al cielo è possibile recuperare un po’ di buon gusto abbandonandosi alla narrazione di “Hell or High Water“.

Okja” È come andare al ristorante con un grande chef e chiedere un piatto che vi stupisca, per poi ricevere una bella insalatona: nessuno discute la bontà del piatto, ma spesso non serve un ristorante per gustarla e soprattutto non può in alcun modo stupirmi. “Stranger Things” (pregando gli dei circa la seconda stagione) vestirà qui il ruolo di bistecca.

Jessica Jones” fu la prima avvisaglia del tracollo già menzionato, e dato che non possiamo sperare in una serie solo su Killgrave, ci faremo ampiamente bastare un ottimo “Better call Saul“.

La prima serie prodotta fuori dall’America fu “Marseille“. Dio ce ne scampi. Piuttosto mi riguardo la serie sulle risse nei corridoi: “Daredevil“.

Spero si sia capito che non è mia intenzione affossare o distruggere l’opinione in merito agli “originali Netflix“, ciò che cerco di fare e scrollare qualche conoscenza affinché ci si renda conto che, pur non superando il numero dei prodotti positivi, si ha quasi un 50% di grosse produzioni che finiscono col rivelarsi deludenti. Si faccia a caso, poi, che il trend negativo tende a concentrarsi nell’ultimissimo periodo, quasi fosse insorta una carestia di idee o di voglia di stupire. Non sono di certo io a dover evidenziare ai capoccia di Netflix che intorno a lei stanno sorgendo altre piattaforme altrettanto interessanti, in primis Amazon Prime Video, che tecnicamente è approssimabile al “gratuito“.

Non che la cosa possa più di tanto spaventare il colosso rosso, ma noi piccole formiche cerchiamo di tener conto di tutto il panorama disponibile. In conclusione, mentre continua ad essere un affezionato cliente, trovo fastidioso dover temere per la riuscita di prodotti che fino a qualche tempo fa avrei atteso con maggior serenità, vedi “Stranger Things 2” o, seppur viziato da un regista che proprio non mi va giù, la ormai prossima serie di “Suburra“.

Sono curioso quindi di sapere se voi altri vi trovate a vostro completo agio come in una accogliente baita di montagna, o se come me, avete iniziato a sentir scricchiolare il pavimento con sempre maggior insistenza.