Italo Calvino fu autore di una celebre frase, che viene spesso citata: “Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire”. Un pensiero condivisibile e che riesce a spiegare con estrema semplicità un concetto apparentemente molto difficile da inquadrare. Assassinio sull’Orient-Express è solo uno dei tanti romanzi che ancora oggi possono regalare emozioni, in ogni forma. E’ forse per questo che il nuovo film di Kenneth Branagh,che ne offre una nuova trasposizione, mi è piaciuto particolarmente e anzi è stata la conferma che il regista da il meglio di sé quando reinterpreta i grandi classici. Vedere il suo Amleto per credere. In particolar modo ho apprezzato la volontà di modificare leggermente alcuni aspetti della storia, senza però stravolgerla, ma arricchendola in modo da renderla più fruibile al pubblico odierno. Potrebbe sembrare inutile produrre nel 2017 l’ennesimo film basato sul celebre libro scritto da Agatha Christie – il quarto in quarantatre anni – e non sono poche le persone che sostengono tale affermazione, ma a ben pensarci stiamo parlando di una delle opere più rappresentative del suo genere, a mio parere infinitamente trasponibile in infiniti modi diversi. Basti pensare al fatto che il già citato Amleto dello stesso regista è solo una delle circa venti trasposizioni dell’opera di William Shakespeare. Nell’ambito del giallo il romanzo della Christie non è meno importante, per cui trovo solo interessante che un artista poliedrico come Branagh abbia potuto regalarci la sua versione cinematografica dell’opera. Naturalmente il confronto con il primo film basato sul libro diretto nel 1974 dal grande Sidney Lumet è istantaneo, anche se ci troviamo di fronte a due versioni diverse e molto personali della stessa materia. Il Poirot di Albert Finney rimane tuttora memorabile senza ombra di dubbio (senza nulla togliere ad altri interpreti del personaggio, come l’immenso Peter Ustinov di Aassassinio sul Nilo), ma questa nuova interpretazione dello stesso Branagh, qui anche attore protagonista oltre che regista, risulta originale e intrisa di novità. Non dimentichiamoci che nell’immaginario collettivo il volto di Poirot, più che quello di Finney, è di David Suchet, che ha interpretato il celebre detective Belga per circa ventiquattro anni nella serie Poirot, uno dei cui episodi è stato basato proprio su Assassinio sull’Orient-Express, una delle indagini più famose del personaggio.
L’eredità cinematografica e televisiva del detective è senza dubbio pesante e non era semplice riuscire a darne una nuova versione senza snaturarlo o renderlo troppo simile a Sherlock Holmes, da cui la Christie aveva preso fortemente spunto per crearlo. Branagh non solo è riuscito nell’impresa di tratteggiare un Poirot tormentato, stanco e quasi sfinito dal suo lavoro, senza però tralasciare la sua irresistibile vena ironica, ma ha anche osato ripensandone l’aspetto estetico, andando a modificare il dettaglio dei baffi, qui non più dei semplici riccioli, ma una selva di peli ispidi che si arrampicano sulle guance in un’acconciatura elaborata e caratteristica, in verità più simili a com’erano descritti dall’autrice. La stessa Christie infatti definisce enormi mustacchi del detective proprio all’inizio del romanzo, quando Miss Debenham lo nota per la prima volta. Forse Branagh non sarà immediatamente riconoscibile come Poirot fisicamente quanto lo è stato Suchet, ma funziona e non poco, anche senza la famigerata testa ad uovo, perchè nei modi e nel pensiero lo ricalca in maniera perfetta. Branagh non è solo un ottimo Poirot che riesce ad affrancarsi dalle versioni precedenti del personaggio (compresa quella di Alfred Molina, che lo interpretò in un dimenticabile adattamento della stessa opera nel 2001), giungendo ad una propria identità ben definita in questa nuova trasposizione, ma la sua regia è qui elegante, mai eccessivamente pomposa e, soprattutto, deliziosamente distaccata. La maggior parte dei momenti più caratteristici della storia, come ad esempio il ritrovamento della vittima o l’incontro tra Poirot e Caroline Hubbard, sono messi in scena in modo peculiare, con la macchina da presa che si distacca dagli avvenimenti, dandocene una prospettiva esterna e quasi neutrale, basata sul non mostrare o sul disturbo dell’immagine da parte di dettagli, come un dialogo ripreso dall’esterno del treno e che possiamo seguire solo attraverso i finestrini o un’inquadratura che mostra i personaggi di spalle e visti dall’alto mentre parlano di qualcosa di cruciale, senza che ci sia permesso di vederlo, aumentando così la tensione.
Il cast del film, esattamente come accadde per quello di Lumet, è semplicemente stratosferico e annopvera interpreti del calibro di Michelle Pfeiffer, Judy Dench, Willem Dafoe, Johnny Depp, Derek Jacobi, Daisy Ridley e Josh Gad. Per tutti quelli che si chiedono ossessivamente come sia stata la performance di Depp in questo caso, basti pensare che interpreta Ratchet: chi conosce la storia può trarre le dovute conclusioni. A conti fatti è stato anche bravo, ma il personaggio in questione è limitato per sua natura, per quanto estremamente importante per lo sviluppo narrativo. Spicca su tutti, oltre a Branagh, la Pfeiffer, che ogni tanto si ricorda di essere ancora un’attrice fenomenale e che qui ha interpretato magistralmente un personaggio reso, in questo caso, profondo come Caroline Hubbard, con tanto di momento di alto livello non poco memorabile. C’è chi avrebbe da obiettare che quella che vediamo in questo film non è la Hubbard del romanzo, nella caratterizzazione, ma personalmente l’ho trovata anche più interessante rispetto a come l’aveva dipinta la Christie, senza la fissazione ostentata per figlie e nipoti, ma trasformata in donna seducente e frivola. Anche due attori giovani come Daisy Ridley e Josh Gad hanno saputo farsi valere, soprattutto quest’ultimo, che sta dimostrando sempre di più di essere portato anche per ruoli decisamente poco comici, nonostante il suo aspetto lo renda apparentemente più adatto alle commedie. In ogni caso il suo Hector McQueen è stato convincente quanto basta. La Ridley, nei panni di Miss Debenham, oltre che grintosa quanto serviva, è stata semplicemente perfetta, confermando la sua bravura alla faccia di chi la critica fin dalla sua prima apparizione il Star Wars- Il Risveglio della Forza. Per la Dench non servono spendere grandi parole: è elegante e titanica come sempre. Gradita è inoltre la presenza di deek Jacobi, attore teatrale britannico noto anche per ruoli più che altro televisivi, come quello del Maestro in Doctor Who (per quanto fugace) o di Stuart Bixby al fianco di Ian McKellen nella sitcom Vicious, qui interprete del maggiordomo di ratchet, Masterman. Ognuno dei personaggi non gode di un approfondimento psicologico particolarmente esteso, ma sono tutti caratterizzati quel tanto che basta per renderli degni di nota, esattamente come nel romanzo, sebbene Branagh si sia preso delle libertà, però mai eccessive.
La vera impresa però, più che riunire un cast di tutto rispetto, era coinvolgere lo spettatore con una trama ampiamente conosciuta o, nel caso di chi non avesse mai letto il romanzo o visto gli adattamenti precedenti, talmente fondativa per il filone da risultare estremamente semplice e già vista. Il che è paradossale, ma vorrei far notatre in quanto hanno accusato di plagio nei confronti di Matrix lo sfortunato film in live action su Ghost In The Shell con protagonista Scarlett Johansson, tratto dall’omonimo manga che aveva generato il film animato di Mamoru Oshii, il quale a sua volta aveva ispirato gli allora Fratelli Wachoski per il loro celebre cult. Sorprendentemente, Branagh è riuscito a conferire al suo film l’identità necessaria per renderlo appetibile sia al conoscitore dell’opera originale, sia al profano, e questo grazie ad uno stile sobrio e caratterizzato da un certo buongusto per le immagini, per i colori caldi che riempiono gli occhi e per i costumi, che contribuiscono a ricostruire la perfetta atmosfera anni ’30 che il film richiedeva. Ma, più che altro, il regista è stato in grado di rielaborare la materia nel modo che gli era più congeniale, stando bene attento a non annientare alla base il significato profondo dell’opera di Agatha Christie, altra cosa molto difficile quando si cerca di venire a capo di un adattamento di questa portata. Sono poi deliziose le numerosissime citazioni ai casi precedenti del detective e gli omaggi sia a Suchet che a Finney e Ustinov, che Branagh ha sapientemente disseminato in tutta la pellicola. Si fa notare il desiderio dell’autore di rendere ancora più manifesto il messaggio di uguaglianza tra razze, veicolato attraverso ad una critica all’intolleranza dell’epoca, tematica molto più attuale nel periodo in cui il romanzo venne pubblicato, ma che ancora oggi fornisce non pochi spunti di riflessione. Purtroppo o per fortuna.
Naturalmente Assassinio sull’Orient Express non è una pellicola priva di difetti e anzi la sua pecca più grande è un drastico calo del ritmo nella parte centrale, unito ad un’introduzione forse troppo ingombrante e duratura, ma anche necessaria per introdurre i numerosi personaggi presenti. Fortunatamente non è stata rivisitata l’opera con l’aggiunta di brani appartenenti alla cultura pop contemporanea, come invece suggeriva il trailer, e la colonna sonora di Patrick Doyle, storico collaboratore del regista, è potente ed estremamente incisiva nei momenti di maggiore pathos, sopratutto sul finale che è di ampio respiro e rappresentato in maniera a dir poco struggente.
In sintesi, Assassinio sull’Orient-Express non è – e nemmeno vuole esserlo – un capolavoro, ma un film che sa intrattenere e che costituisce l’omaggio di un regista capace ad un’opera immortale e che a suo tempo seppe anticipare la tendenza di un genere che ancora oggi suscita interesse in milioni di lettori e spettatori. Ma la vera sorpresa è stata l’interpretazione di Branagh stesso, che contro ogni aspettativa ha saputo rendere credibile il suo Poirot, non facendo assolutamente rimpiangere né Finney, né tantomeno Suchet, rendendo il termine Equilibrio una chiave fondamentale per coglierne l’essenza. Come si dice, “Il Diavolo è nei dettagli” e sono proprio i dettagli a rendere il Poirot di Branagh così convincente. E se volete comunque lamentarvi di un paio di baffi, potete tranquillamente prendervela con Henry Cavill.