Il regista geniale, spesso, è quello che sa – e vuole – fare tutto nel suo mestiere. Lo è stato Tim Burton fino a qualche tempo fa, prima di cadere in una spirale di manierismo lents e inesorabile: tanto abile nel creare atmosfere suggestive nei suoi film in live action, quanto appassionato nell’infondere la sua poetica in opere d’animazione in stop motion, dal corto Vincent a La Sposa Cadavere, passando per il concept di The Nightmare Before Christmas, diretto però da Henry Selick. E, a ben pensarci, un altro genio che condivide una poetica netta e ben definita, soprattutto a livello di atmosfere, è Wes Anderson. Portatore di un’estetica immediatamente riconoscibile, anche questo regista ha saputo ritagliarsi il suo posto nell’immaginario collettivo e, esattamente come Burton, ogni tanto ci regala perle di animazione realizzate con la tecnica dello stop motion. Probabilmente qualcuno conosce quel Fantastic Mr. Fox che Anderson portò nelle sale ormai nove anni fa, tratto dal romanzo omonimo scritto da Roald Dahl, irresistibile e adatto tanto ad un pubblico di bambini e ragazzi, quanto ad un pubblico di adulti, forte di una limpida maturità artistica e concettuale. Dopo quel riuscitissimo esperimento cinematografico, dove Anderson aveva rivolto la sua poetica ad una messa in scena completamente differente, dove gli attori erano rimpiazzati da pupazzi caratterizzati da un concept design magnifico, ecco che il regista ci riprova con L’Isola dei Cani. Non solo riuscendoci, ma anche mettendosi in gioco, presentando il film alla scorsa edizione del Festival di Berlino, vincendo il nastro d’argento per la miglior regia. In un lasso di tempo che copre quasi una decade, però. com’è cambiata la visione di Wes Anderson nei confronti del cinema animato? Innanzitutto bisogna considerare che, a differenza di Fantastic Mr. Fox, questa sua nuova fatica è un’opera completamente originale, non solo da lui diretta, ma anche scritta. Nella fattispecie stiamo parlando di un vero e proprio atto d’amore nei confronti del cinema nipponico, con particolare attenzione per il maestro Akira Kurosawa, delle cui opere più celebri possiamo notare in questa pellicola numerosissime citazioni.
Dopo quel riuscitissimo esperimento cinematografico, dove Anderson aveva rivolto la sua poetica ad una messa in scena completamente differente, dove gli attori erano rimpiazzati da pupazzi caratterizzati da un concept design magnifico, ecco che il regista ci riprova con L’Isola dei Cani. Non solo riuscendoci, ma anche mettendosi in gioco, presentando il film alla scorsa edizione del Festival di Berlino, vincendo il nastro d’argento per la miglior regia
Tutto, dal design dei personaggi alla regia gestita magistralmente, si rifà alla tradizione cinematografica e teatrale giapponese, con inserimenti di numerosi stilemi estrapolati direttamente dal teatro Kabuki, soprattutto per quanto concerne la caratterizzazione sopra le righe di Atari, il bambino protagonista. In particolar modo questo personaggio ha un ruolo centrale, in quanto sembra essere l’unico umano nel film ad avere una genuina purezza che lo porta a svolgere una funzione estremamente importante, in quanto ponte tra la malvagità degli Uomini e la tragica ingenuità dei Cani. La trama è tanto semplice quanto efficace, dal sapore mitico e fiabesco, veicolata attraverso una messa in scena potente, che parla attraverso le immagini. Uno dei punti centrali del film, infatti, è proprio la comunicazione: gli umani parlano quasi tutti giapponese, tradotto attraverso i sottotitoli, mentre i personaggi dei cani parlano in inglese (e ovviamente in italiano nella versione che approderà a breve nelle nostre sale). Questo crea numerose situazioni di apparente incomunicabilità che vengono risoolte con scene lunghe e spesso sileziose, in cui le immagini dicono più di qualunque discorso. Sono rare le spiegazioni, tutto è perfettamente intuibile e spiccano le tematiche dell’eroismo, del perdono e anche il tema dell’ecologia, rappresentato dall’ambientazione desolante e desolata dell’enorme discarica in cui si svolge quasi per intero il racconto. Nella versione originale spiccano inoltre alcuni grandi nomi che hanno prestato le voci ai personaggi principali: da Bryan Cranston a Edward Norton, Bill Murray, Jeff Goldblum, Scarlet Johansson e addirittura Yoko Ono.
Ognuno dei personaggi canini è tratteggiato in maniera sublime, partendo da una base stereotipata che viene sapientemente oltrepassata man mano che la storia si sviluppa, evolvendo in una certa profondità psicologica inizialmente insospettabile. Ciò che però rende L’Isola dei Cani un film memorabile è il delizioso umorismo raffinatissimo che Anderson ha saputo dosare in maniera equilibrata: non si eccede mai, ogni battuta segue un preciso tempo comico e l’atmosfera grottesca si rivela una cornice perfetta per le sferzate ironiche e continue sferrate dai personaggi. Se proprio si volesse trovare un difetto a questa piccola perla del cinema d’animazione si potrebbe notare come il ritmo cali leggermente nella seconda parte e, soprattutto, che alcuni personaggi sono introdotti troppo in ritardo rispetto all’importante funzione che svolgono. Niente di fastidioso o particolarmente grave, sia chiaro, ma sono gli unici elementi che separano quest’opera maestosa dalla perfezione. Non è semplice, nel 2018, riuscire ad interessare ancora il pubblico grazie alla tecnica dello stop motion, portata avanti da pochi baluardi delf ilone, come la Laika, casa di produzione che ha regalato al pubblico veri e propri capolavori come Coraline e la Porta Magica, Paranorman e Kubo e la Spada Magica (notare la fantasia dei traduttori). La regia che Wes Anderson ha messo in gioco in questo suo film è elegante, contraddistinta da movimenti di macchina illusori molto lunghi e da una lentezza quasi sacrale, volta a valorizzare ogni singolo personaggio.
Se questo non fosse sufficiente, alla regia mostruosa si accompagna una fotografia coloratissima, ma allo stesso tempo distaccata, che assorbe la freddezza di un’atmosfera ostinatamente ostile, restituendo allo spettatore lo stesso senso di disagio che ormai è penetrato fin dentro alle ossa dei protagonisti. Non è poi da sottovalutare l’idea di una violenza di fondo, che i personaggi cercano di combattere, ma che si palesa in maniera quasi sotterranea, senza mai emergere in modo traumatico, costantemente presente e ricordata quasi ossessivamente dal pezzo di rottame conficcato nella testa del piccolo Atari. L’Isola dei Cani è una pellicola basata sui rapporti: i cani devono superare l’idea del tradimento immeritato che hanno dovuto subire e Atari è il veicolo del tentativo di perdono, anche se ne è portatore inconsapevole. A colpire è il fatto che i cani si comportino da cani, ma mostrino una meravigliosa umanità intrinseca, pur sempre rimarcando la differenza tra le due specie. Insomma, Wes Anderson ha saputo colpire ancora al cuore degli spettatori, donando al pubblico una fiaba contemporanea particolarissima, popolata da personaggi spassosi ma allo stesso tempo profondi, memorabili sia per la loro caratterizzazione, che per il modo in cui sono stati realizzati da un punto di vista puramente visivo. La forza del regista è quella di saper comunicare potentemente la propria poetica sia con un film articolato come Grand Budapest Hotel, che con una pellicola completamente diversa come questa, rendendo il suo stile comunque manifesto. Di geni come lui, si diceva, ne esistono davvero pochi.
IL MIO VOTO PER L’ISOLA DEI CANI E’: 9
L’Isola dei cani esce nelle sale italiane il 1 maggio.