Boris: una serie poco italiana su una fiction molto italiana
Quando entriamo nel microcosmo di Boris per la prima volta, proviamo la stessa sensazione che prova Alessandro, lo stagista, nel momento stesso in cui mette piede negli studi televisivi della Magnesia. Siamo spiazzati e anche un po’ spaesati di fronte al mondo della serialità italiana. Alessandro infatti incarna il perfetto spettatore occasionale che, facendo zapping in un noioso sabato sera, si imbatte nella fiction in prima serata. L’impulso sarebbe quello di spegnere o cambiare canale, ma inspiegabilmente l’attrazione è tanto forte quanto inaspettata, così si rimane lì e puntata dopo puntata sei conquistato da quel trash malamente confezionato.
Allo stesso modo Alessandro, quando arriva negli studios de Gli Occhi del Cuore, rimane preda di questo meccanismo, nonostante gli ambienti fatiscenti, i maltrattamenti subìti e il dover lavorare per una fiction di dubbio gusto.
Distribuito da Fox (oggi disponibile su Netflix), per la regia e sceneggiatura di Torre, Ciarrapico e Vendruscolo, Boris è il progetto italiano più ambizioso e ben riuscito in quanto a serie tv. Andato in onda dal 2007 al 2010, lo show comprende tre stagioni composte da 14 episodi, dalla durata di 30 minuti circa. Con il suo impianto meta-televisivo, Boris fa ironia e autoironia sui segreti mai svelati delle produzioni tv italiane, portandole sulla scena. Il risultato finale è una critica spassionata alla serialità nostrana, condita di satira con qualche punta di black humor. Un inno alla rassegnazione e alla mediocrità contro la vitalità dell’ambizione artistica.
Gli anni in cui Boris fa il suo esordio sono gli anni di boom della fiction italiana; pensiamo a Un medico in famiglia, Capri (o Caprera?), Incantesimo e chi più ne ha più ne metta. Anni in cui la televisione ha un ruolo centrale nella vita e nelle abitudini degli italiani, trovando nella produzione in serie la sua espressione più rappresentativa. Boris, di conseguenza, risulta geniale proprio perché è riuscita ad essere una serie poco italiana raccontando una fiction molto italiana, in grado di non cadere in quei cliché. Si rivela, anzi, uno show di nicchia, che fa della sperimentazione il suo punto centrale, indirizzato ad uno spettatore dallo spiccato senso critico con i suoi sketch comici, sempre fini e intelligenti. Lo scopo di Boris infatti, è proprio quello di scoprire le carte sul sistema fallimentare su cui sono basate le fiction in Italia, che non lasciano spazio a libertà artistiche, perché quello che più interessa ai fini della riuscita sono gli ascolti e la fidelizzazione con il pubblico a casa. Nel mondo della lunga serialità infatti, non è il regista che conta per quanto concerne il successo di un prodotto, tutta la sua autorialità si perde e il ruolo di spicco è affidato al produttore. Produttore che è costantemente in contatto con i responsabili di rete, detentori del sacro equilibrio tra l’aspetto progettuale, i contenuti e il rispetto di questi in termini di tempi, costi e investimenti.
Ma se Boris è tutto questo, Gli occhi del Cuore di cosa parla? Gli occhi del Cuore non è altro il manifesto del filone hospital all’italiana, dove le vicende ruotano intorno alle figure di medici e dottoresse, che dediti fino al midollo nella loro professione, sono gli eroi del nostro tempo e operano in cliniche sempre efficienti e funzionanti. Ambienti insomma ben lontani dalla reale sanità italiana. Nonostante ciò, i veri protagonisti de Gli Occhi del Cuore sono sempre i sentimenti e le vicende dei personaggi.
Come da copione, si fa ampio uso del primo piano, i personaggi enfatizzano allo stremo i loro dialoghi, sono assenti le azioni fluide e le inquadrature sono sempre a 360°, con la telecamera posta a mo di “quarta parete”, così che lo spettatore sia ridotto a mero osservatore che di nascosto segue lo svolgimento della storia. Ovviamente la recitazione degli attori è monodimensionale, proprio perché la loro caratterizzazione deve risultare subito comprensibile anche allo spettatore non fidelizzato.
Il modo in cui Gli occhi del Cuore è scritta è, nuovamente, coerente con il tipo di sceneggiatura usata per le fiction di punta. Non c’è nulla di inventato quando vediamo che le scene non vengono girate seguendo la sequenza narrativa che si darà alla messa in onda, visto che l’ordine si ottiene in fase di montaggio. Questo perché spesso capita che la sceneggiatura debba essere modificata in corsa, per adattarsi alle esigenze – spesso dubbie – della produzione. Non solo, spesso capita addirittura che molte scene non vengano girate. L’unica cosa che conta quando si parla di scene da girare è rimanere nei tempi.
I personaggi
Se da un lato Boris fa dei suoi contenuti il suo punto di forza, dall’altro non sono da meno i personaggi che, dal primo all’ultimo, incarnano perfettamente le non troppo stereotipate personalità del mondo della televisione.
Primo tra tutti, troviamo René Ferretti (Francesco Pannofino), il regista de Gli occhi del Cuore con un passato autoriale alle spalle, che si ritrova suo malgrado a doversi piegare ai voleri della rete per non cadere nel mondo del precariato a 50 anni. Accetta dunque il compromesso, ma ogni fiction per lui risulta sempre un ostacolo da superare con estrema difficoltà. Suo fedele compagno di avventure e collega è Duccio Patanè (Ninni Bruschetta), il direttore della fotografia, che dopo essere entrato – e mai uscito – dal tunnel della droga, a differenza di Ferretti se ne frega totalmente di fare un lavoro minimamente dignitoso, ma si limita a delegare i compiti e a smarmellare, aprendo tutto.
Accanto a René troviamo anche Arianna (Caterina Guzzanti), l’aiuto alla regia, che insieme allo stagista Alessandro (Alessandro Tiberi) sembra essere l’unica e seria e competente tra gli addetti ai lavori. Il suo essere così dedita alla professione, la porterà di contro a reprimere il suo lato più sensibile, una debolezza che non può permettersi se vuole continuare ad avere credibilità in quell’ambiente.
Veniamo poi alle star de Gli occhi del Cuore, Stanis La Rochelle (Pietro Sermonti) – con il suo odio per i toscani (nonostante abbia solo amici toscani, dal produttore di cavatappi livornese, alla contessa lucchese) e il suo atteggiarsi a divo di Hollywood, e Corinna Negri (Carolina Crescentini), gli attori peggiori con cui ogni regista non vorrebbe mai lavorare. Capricciosi, narcisisti e incapaci, sono costantemente coperti da svariate raccomandazioni che gli fanno ottenere sempre i ruoli da protagonisti nella maggior parte delle fiction italiane.
Per quanto riguarda il personaggio di Stanis, l’attore che lo interpreta, Pietro Sermonti, ha dichiarato più volte che Boris per lui è stato una benedizione perché gli ha permesso di esorcizzare il ruolo del Dott. Zanin datogli ne Un medico in famiglia, e consacrato a eroe romantico. È stato addirittura lo stesso Sermonti a scegliere di voler interpretare un medico ne Gli occhi del Cuore per scollarsi di dosso il personaggio di Zanin, dato che inizialmente avrebbe dovuto impersonare un prete.
Indimenticabili sono poi l’elettricista Biascica (Paolo Calabresi), costantemente in lotta per gli straordinari d’aprile di Libeccio (altra grande fiction made in Magnesia) con il suo stagista schiavo, Lorenzo (Carlo De Ruggieri), da lui vessato e maltrattato. E ancora la segretaria di edizione Itala (Roberta Fiorentini), alcolizzata e ultraprotetta dagli alti ranghi della produzione, di conseguenza inamovibile, amante della comicità becera da cinepanettone e l’unica che si scassa dalle risate ogni volta che Nando Martellone (Massimiliano Bruno) prende parte alle riprese della “linea comica” de Gli occhi del Cuore, recitando la sua battuta migliore: “Bucio de culoo”.
Nella seconda stagione fanno poi il loro ingresso altri protagonisti degni di nota, come lo psicopatico Mariano Giusti (Corrado Guzzanti), preda di apparizioni mistiche sulla Roma-L’Aquila; Cristina Avola Burkstaller (Eugenia Costantini) una viziata radical chic capitata lì per caso senza alcuna voglia di lavorare e Karin (Karin Proia), semplicemente “le cosce” o per meglio dire una perfetta incarnazione di Sabrina Ferilli.
Infine, ma non per importanza, troviamo Sergio (Alberto Di Stasio), il tirchio produttore esecutivo; Diego Lopez (Antonio Catania), il responsabile di rete e galoppino del Dottor Cane, il capo della rete televisiva… o come direbbe Stanis “il Totò Riina della fiction italiana… in senso buono eh”; e gli Sceneggiatori n° 1, 2 e 3 gli artefici de Gli occhi del Cuore e detentori del segreto che si cela dietro la serialità da prima serata: la locura.
Insomma, ogni personaggio in Boris, che abbia più o meno spazio nella storia, arricchisce il racconto in maniera impareggiabile, tanto che verrà difficile allo spettatore non affezionarsi, nonostante certi loro modi rozzi e scurrili. Ognuno racconta uno spaccato di realtà televisiva e lo fa nella maniera più sincera possibile, senza risparmiarsi nulla, e dove l’unica cosa che conta è guardare al proprio orticello.
La locura
Ma quindi Boris, alla fine, auspica in qualcosa? Che nonostante tutto un’altra televisione è possibile? Che in un futuro le cose cambieranno e che l’Italia potrà finalmente confezionare prodotti televisivi che, seppur semplici, saranno almeno originali?
Diciamo che, rispetto agli anni in cui Boris è stato trasmesso, qualche passo in avanti è stato fatto nelle produzioni italiane, tuttavia siamo ancora lontani dal poter gridare alla rivoluzione della tv generalista. Perché ahimè, seppur gli anni passino, “si cambia tutto perché nulla cambi” – per dirla in modo gattopardiano – e torna prepotente la locura. Sì, la locura.
La locura. La pazzia – che cazzo, René! –, la cerveza, la tradizione, o merda, come ‘a chiami tu, ma con una bella spruzzata di pazzia: il peggior conservatorismo che però si tinge di simpatia, di colore, di paillette. In una parola: Platinette. Perché Platinette, hai capito, ci assolve da tutti i nostri mali, da tutte le nostre malefatte… Sono cattolico, ma sono giovane e vitale perché mi divertono le minchiate del sabato sera. È vero o no? […] Ci fa sentire la coscienza a posto Platinette. Questa è l’Italia del futuro: un paese di musichette, mentre fuori c’è la morte! È questo che devi fare tu: Occhi del cuore sì, ma con le sue pappardelle, con le sue tirate contro la droga, contro l’aborto, ma con una strana, colorata, luccicante frociaggine. Smaliziata e allegra come una cazzo di lambada. È la locura René, è la cazzo di locura. Se l’acchiappi hai vinto.