Ci sono nomi che sono una garanzia. per molti, Pixar è uno di questi, almeno per quanto riguarda l’animazione. Se poi a quello si aggiunge anche il nome di Lee unkrich, regista di Monsters&Co., Alla Ricerca di Nemo e Toy Story 3, il risultato non può che essere ottimo. Coco, diretto proprio da Unkrich, è l’ultima fatica di casa Pixar, la quale, dopo aver lasciato il posto ai classici Disney redivivi e in grande spolvero dopo anni di crisi nera, torna a monopolizzare il periodo natalizio per scontrarsi con il Ferdinand di casa Dreamworks. A soli 4 mesi da Cars 3, decente ma non del tutto conforme ai soliti standard Pixar, ecco approdare nelle sale un film d’animazione semplicemente splendido, una storia di formazione che si piazza di diritto tra i migliori film prodotti dalla grande major finora, ai livelli del già citato terzo capitolo della saga di Toy Story. I meccanismi narrativi su cui si basa la pellicola sono tanto semplici quanto efficaci, alcuni riciclati, sebbene in maniera rinnovata, da altri film Pixar precedenti e con una serie di personaggi semplicemente irresistibili, a partire dal protagonista, Miguel. Non il solito ragazzino in cerca di avventura già visto in decine di altri film d’animazione, ma un sognatore che farebbe di tutto pur di raggiungere il sogno che la famiglia gli nega, ovvero quello di diventare un musicista. L’ambientazione messicana e la profonda radicazione della storia nella tradizione popolare del paese, con particolare riferimento al Dia de Los Muertos, rendono Coco un film dal profondo interesse culturale che tratteggia alla perfezione un intero popolo e la passione artistica pura e semplice.
La famigerata attenzione della Disney per il cosiddetto girl power qui si traduce con un esperimento ben più profondo, qualcosa di evidente, ma non eccessivamente rimarcato, ovvero il mostrare la famiglia Rivera, quella del protagonista, come una microsocietà a base matriarcale e governata da donne forti a cui gli uomini portano un profondo rispetto. Unico ribelle che si sgancia consapevolmente da questa realtà, rifiutando l’autorità familiare, è proprio il piccolo Miguel, che si ritrova catapultato in un mondo di cui non sospettava minimamente l’esistenza e dove si ritrova però a dover fare i conti con il ramo defunto della famiglia, se possibile ancor più severo. L’idea di base del film potrebbe ricordare da vicino il recente Il Libro della Vita, che però è tratto dalla stessa leggenda popolare a cui è ispirato Coco e in ogni caso il film Pixar è entrato in pre-produzione prima del rilascio dell’altra pellicola nelle sale. Piuttosto, sono parecchio evidenti i riferimenti – quelli sì palesemente voluti – a La Sposa Cadavere di Tm Burton, soprattutto per quanto riguarda la realizzazione estetica coloratissima del mondo dei morti, con la differenza che in quel caso il mondo dei vivi era spento e caratterizzato da colori cupi, a creare un interessante contrasto. Dal punto di vista puramente visivo, Coco è senza dubbio uno dei film Pixar più evoluti, sia per quanto riguarda i background, che per il design dei personaggi, tutti perfettamente caratterizzati da un tratto morbido e sciolto, in perfetta linea con il tono del film. Sì, perchè la vera protagonista della pellicola è la musica e la trama è costellata di personaggi che, nel bene o nel male, vi hanno a che fare. Le canzoni, che attingono a piene mani dal repertorio tipico della cultura musicale messicana, costituiscono una vera e propria iniezione di energia che tiene viva l’attenzione dello spettatore, ma allo stesso tempo non sono per nulla ingombranti e anzi si fatica a definire Coco un film musicale, perchè di fatto non lo è. Piuttosto, lo si può considerare un film sulla musica che farà battere il cuore agli appassionati e non solo a loro, vitale, con colori vividi e una capacità di coinvolgimento nella storia non indifferente. I comprimari che accompagnano Miguel nella sua avventura sono tutti immediatamente simpatici, soprattutto il cane Dante, che non ha il ruolo di semplice comic relief, ma svolge una parte importante ai fini dello sviluppo narrativo. ma a spiccare ono, senza dubbio, Hector, vero e proprio co-protagonista la cui voce in lingua originale è di Gael Garcia Bernal e Ernesto De La Cruz, quest’ultimo di particolare interesse per via del suo troneggiare per tutta quanta la durata della pellicola, ma quasi solo a livello ideale, a fronte di un’effettiva comparsa in scena ridotta.
La famigerata attenzione della Disney per il cosiddetto girl power qui si traduce con un esperimento ben più profondo, qualcosa di evidente, ma non eccessivamente rimarcato, ovvero il mostrare la famiglia Rivera, quella del protagonista, come una microsocietà a base matriarcale e governata da donne forti a cui gli uomini portano un profondo rispetto.
La più grande forza di Coco è infatti l’estrema semplicità con cui riesce a rendere importanti personaggi che fino a qualche minuto prima nemmeno erano stati presentati, grazie soprattutto ad una scrittura della sceneggiatura impeccabile e al messaggio veicolato, semplice ma anche molto efficace: l’importanza della famiglia e la caparbietà nell’inseguire i propri sogni. Detto così non sembra che si stia parlando di un messaggio particolarmente originale, ma lo è il modo in cui viene portato avanti, con l’utilizzo di clichè per nulla banalizzati e anzi portati ad un livello successivo.
Coco è, come spesso accade per i film Pixar, una sorta di Road Movie folle, in cui l’intrappolamento del protagonista in una situazione di pericolo è legato al suo sentirsi in trappola nel mondo reale: Miguel è costretto a scegliere tra il rispetto per la propria famiglia e l’inseguire il suo sogno più grande. Ciò che stupisce è la sua volontà di non fuggire il pericolo pur di mantenere saldi i propri principi, espediente peculiare e decisamente interessante.
Unico neo – ma questo vale per la sola versione italiana – è la scelta di alcune voci appartenenti, come accade sempre più spesso per i film d’animazione, a personaggi del mondo dello spettacolo che nulla hanno a che fare con il doppiaggio. Si può accettare tranquillamente sulla performance di Mara Maionchi, che presta la voce a Mamà Coco, personaggio che da il nome al film, e che è stata decente, se si pensa che avrà sì e no quattro frasi in tutto il film. Il vero problema sono Valentina Lodovini e Matilda De Angelis, che doppiano rispettivamente la madre e la zia di Miguel, le quali sono riuscite a pronunciare in maniera agghiacciante le poche parole che gli sono state assegnate. Fortunatamente i personaggi di rilievo sono doppiati tutti da professionisti del settore, per cui è un difetto su cui si può sorvolare.
Infine, è fondamentale la tematica del viaggio inteso come elemento di crescita, al termine del quale i personaggi avranno imparato una lezione molto importante, che li aiuterà a maturare e a trovare il proprio posto nel mondo. A ben pensarci, la stragrande maggioranza dei film di casa Pixar sono asserviti al viaggio: basti pensare ai recenti Inside Out, Il Viaggio di Arlo e Cars 3, ma volendo potremmo scomodare anche Toy Story e Up, per citarne altri due. La realtà è che per la gran parte sono film di formazione con protagonisti giovani e inizialmente inesperti, per questo il percorso formativo avviene quasi sempre attraverso un viaggio prima di tutto spirituale e simbolico. In Coco, in particolare, abbiamo un’importanza notevole data all’ascesa: Miguel e Hector, nel mondo dei morti, intraprendono un percorso che li porterà i luoghi sempre più elevati verso l’alto da un punto di vista architettonico, fino a raggiungere un determinato apice dalla forte valenza simbolica, in quanto poi possiamo notare un improvviso ribaltamento della situazione, con predominanza della discesa, a significare il raggiungimento di un obiettivo elevato che si rivela però fasullo, con conseguente caduta di chi lo perseguiva.
Ci troviamo di fronte ad un film d’animazione maestoso, che, come al solito quando si parla di Pixar, èin grado di emozionare i più piccoli e far riflettere gli adulti, approcciando tematiche attuali in maniera elegante. Notevole anche il fatto di essere riusciti a mescolare le epoche con una certa nonchalance, tingendo di passato anche l’ambientazione messicana contemporanea, come a voler rimarcare un sapore tradizionale estremamente forte. Verrebbe quindi da domandarsi se in Pixar siano in grado di sbagliare per davvero un film. Saetta McQueen vorrebbe rispondere, ma possiamo evitargli la fatica.