Death Stranding – La recensione

death stranding

Kojima is Back!

 

Finalmente ci siamo. Dopo 3 anni di attese, aspettative e sogni, Death Stranding è realtà. L’ultima fatica di Hideo Kojima, del sommo maestro dal tocco magico, apre un nuovo capitolo della sua carriera. Un capitolo iniziato con la brusca rottura con Konami, con Metal Gear prima e il mai nato P.T. poi. Uno dei progetti più ambiziosi a cui il director giapponese abbia mai lavorato, il gioco della sua rinascita.

E da fan, vivere Death Stranding, sia nella fase gestionale sia “post parto” è stata un’esperienza sfiancante, per cercare di capire cosa fosse o cosa non fosse in realtà Death Stranding. Un titolo osannato come game changer, una prova autoriale che sancisce in modo netto che produzioni tripla A e sperimentazione possono andare a braccetto, per creare qualcosa di realmente nuovo. Death Stranding è tutto e niente. È per Kojima la voglia di potersi esprimere senza freni, senza inibizioni, senza quel padrone che blocchi il suo estro creativo, proprio come in passato.

Ma rimettiamo insieme i pezzi di questo gioco, dopo averlo sviscerato per decine di ore, immersi in un mondo a tratti alienante, e cerchiamo di rispondere alla domanda che tutti vi state ponendo in questi giorni: è veramente il capolavoro annunciato che stavamo aspettando?

Death Stranding

In un futuro prossimo il mondo come lo conosciamo è finito, cancellato dal Death Stranding, un evento catastrofico che ha spazzato via gran parte della vita dalla Terra, lasciando i sopravvissuti in balia delle Creature Arenate. I CA sono esseri invisibili generatosi dalle anime dei morti che non sono riuscite a raggiungere l’aldilà, e che vagano sulla Terra assetate di vita. L’assetto geopolitico è cambiato, e adesso regna una sorta di anarchia. Vivere all’esterno dei bunker e degli avamposti è impensabile, non solo a causa delle CA ma anche della cronopioggia, un effetto che ha accompagnato il Death Stranding e che qualsiasi cosa bagna ne causa l’invecchiamento precoce portandolo alla distruzione, o alla morte nel caso di un umano.

La comunicazione è diventata quindi essenziale, sebbene sia quasi impossibile farlo. Ed ecco che i corrieri sono diventati il nuovo barlume di speranza, eroi che affrontano qualsiasi insidia pur di portare a destinazione il loro carico. Sam Bridges è uno di loro. Un corriere. Un lupo solitario che ha il volto dell’attore Norman Reedus, una delle star della serie TV The Walking Dead e neo pupillo di Kojima, dopo lo sfortunato caso di P.T.

Sam però è speciale, ha dei poteri e come lui pochi altri. Grazie ai Dooms è in grado di percepire le CA, sentirne la vicinanza, senza tuttavia vederli completamente perché il suo dono non è così potente rispetto ad altri soggetti anch’essi dotati di Dooms. Ed è qua che entra in gioco il Bridge Baby, BB, l’inquietante neonato sottovetro che fin dall’annuncio è stato l’icona di Death Stranding, in grado di connettere il suo utilizzatore con il mondo dei morti, così da percepire realmente le CA. Ma abbiamo detto che Sam è speciale. Non solo per i poteri dei Dooms, ma anche perché lui è un riemerso, ovvero una persona in grado di ritornare in vita se sconfitto da una CA, lasciando però dietro di sé gli effetti devastanti di questa rinascita, le voragini.

Sam è un corriere il cui unico scopo è quello di rispondere alle richieste d’aiuto delle persone, cercando di portare nelle loro vite un po’ di serenità anche se in maniera molto distaccata. Tutto però cambierà quando la morente Presidente degli Stati Uniti, sua madre, gli chiederà di occuparsi di una questione di vitale importanza: unirsi alla Bridges, un’organizzazione governativa, e far rinascere l’America. L’obiettivo è quello di riconnettere fra loro tramite la rete Chirale quello che resta delle città e dei piccoli gruppi abitati dandogli la speranza di un futuro radioso, o per lo meno dignitoso.

Suo malgrado Sam dovrà accettare l’incarico e partire alla volta dell’America cercando così dar vita a questa rete interconnessa.

Kojima: Connecting People

Il nuovo titolo di Kojima Production parte buttandoci nei panni di Sam nel vivo dell’avventura, e presentandoci fin da subito buona parte del cast che compone il gioco. Kojima è sia un abile scrittore che un abile narratore, e in pochi minuti, grazie alla potenza delle immagini riesce subito a gettare le basi del gioco, facendo percepire a chi impugna il controller il disagio della vita sulla Terra post Death Stranding.

Il cuore del gioco sono proprio i suoi personaggi, protagonisti di un’opera unica, solida, e messa in scena come non succedeva da tempo. Kojima si sbizzarrisce portando a video tutto il suo bagaglio culturale, e lo fa senza freni, con uno stile ormai riconoscibile ed utilizzando un suo codice ben decifrabile. Fra simbolismi e metafore, Death Stranding non si fa premura di inviare messaggi. Messaggi virtuali, ma ben diretti, verso la presidenza americana e la sua atroce politica sovranista, sull’importanza delle connessioni fra esseri umani e sul rapporto dell’uomo con l’ambiente. L’uomo è al centro di tutto, sempre, e ce lo fa capire con una schietta disanima sulla sua evoluzione, sul suo essere retrogrado e autodistruttivo, mettendo faccia a faccia Homo Demens e Homo Ludens, due facce di una stessa medaglia.

Il linguaggio di Kojima è diretto, e colpisce al cuore dello spettatore. Con Death Stranding ci troviamo di fronte a qualcosa di puro che viene raccontato con una grazia che spetta solo ai grandi del cinema e che spesso fatichiamo a trovare in prodotti analoghi. La tendenza poi alla mescolanza di cinematograficità e videogioco in Death Stranding fa un ulteriore passo avanti grazie alla presenza di attori la cui bravura è disarmante per quanto alta. Norman Reedus è perfettamente calato nella parte, sebbene sia un ruolo molto vicino a quello interpretato in The Walking Dead. Superlativo invece quello di Mads Mikkelsen, che ci regala forse una delle sue prove attoriali più riuscite. Intenso, profondo. Non è concepibile rimanere impassibili, non provare una singola emozione di fronte a quello che si manifesta sulle nostre retine. Ogni protagonista è un pezzo di un magnifico puzzle, e Death Stranding si preoccupa di parlarci di loro concedendogli un capitolo a testa, svelandoci  così piano piano il destino che spetta ad ognuno di loro all’interno di questa intricata tela.

Di Death Stranding c’è piaciuta la sua coerenza narrativa, il suo saper raccontare una storia cercando di chiudere e dare risposta a tutti gli interrogativi aperti per quanto non sempre sia facile farlo. E nonostante all’inizio dell’avventura si venga travolti da una mole sconfinata di informazioni, tutto trova il proprio posto, con un’escalation emotiva di rara bellezza. E una volta messe le mani sul gioco, ci si accorge che proprio le prime ore sono le migliori, quelle nelle quali si respira un’atmosfera unica, quasi magica.

Make America connected again

Trovarsi a girovagare nelle sconfinate lande dell’America di Death Stranding è qualcosa di straniante, di alieno, dove il nostro sguardo si perde nella vastità desolante di un mondo privo di vita, vergine ed immacolato, se non fosse per la presenza delle CA e di qualche altra avversità. Il silenzio che ci pervade è quasi brutale, ed esaspera quella sensazione di solitudine che ci accompagnerà per tutta l’avventura, venendo improvvisamente interrotto di tanto in tanto dall’apparizione di traccia musicale, come se fosse saltata fuori da una delle playlist di Kojima, e che ci accompagnerà in maniera sicura verso la nostra meta. Poi la pioggia, solitamente fonte di vita, qua diventa il simbolo di una minaccia costante che consuma tutto e tutti senza riserve, trasformandosi in portatrice di morte. Una sirena d’allarme che anticipa la venuta delle CA, dalle quali dovremo stare bene alla larga.

Con la loro comparsa l’atmosfera si incupisce, rendendo tutto così distante come se ci trovassimo sotto una campana di vetro, quasi isolati da tutto il resto. Il senso di abbandono e pericolo aumentano, e la costante minaccia delle CA cresce ad ogni nostro passo. L’essere disarmati ci costringe ad evitarle, a stargli lontani cercando di non essere colti da un loro sguardo, abbozzando in scena quelle meccaniche stealth che ricollegano malamente Kojima al suo passato. Queste prime ore sono forse una delle cose più belle che i videogiochi ci abbiano mai proposto in questi ultimi anni e riescono facilmente a fare breccia nei cuori dei giocatori. Il senso di angoscia che si prova ad esplorare il mondo, il modo ermetico di raccontarci una storia che già dalle sue basi profuma di capolavoro e un gameplay che sebbene abbozzato ha il suo fascino.

Poi c’è lei, l’America secondo Kojima. Un America che ha il volto dei contorni islandesi, con le sue colline rocciose, le distese desertiche e le montagne innevate. Un luogo talmente affascinante ed incantato quanto inospitale, dove anche il minimo spostamento rende la vita a Sam estenuante. Uno scenario che vi fa sentire infinitamente piccoli, quasi impotenti, ma nonostante ciò ne sarete morbosamente attratti come da un magnetismo invisibile e non potrete fare a meno di continuare ad esplorarla fino nel profondo.

 

Poi però questo equilibrio sembra in qualche modo rompersi quando superata la prima area di gioco, indicativamente verso il capitolo 3, ci dovremo spostare oltre continuando il nostro giro di consegne per connettere l’America. Se da un lato la storia continua in maniera quasi perfetta a raccontarsi al giocatore, dall’altro ci dobbiamo scontrare una serie di elementi di gameplay che non riescono a reggere la prova del tempo. Di base Sam deve rispondere alle richieste degli abitanti dell’America, viaggiando senza sosta da un posto all’altro cercando di consegnare il proprio pacco velocemente e possibilmente integro. Nelle prime ore con questa attività va di pari passo con il senso di scoperta, dell’esplorazione di questo mondo sconosciuto, della voglia di sapere cosa si cela in un determinato punto della mappa. Proprio il senso di esplorazione ci ha ricordato in più di un’occasione quello provato con The Legend of Zelda: Breath of the Wild, senza però avere lo stesso grado di gratificazione o che si venga premiati in qualche modo al di fuori di una delle missioni selezionabili.

La possibilità di andare dove si vuole qua viene limitata da uno sviluppo di trama più rigido, ma si apre alla fantasia del giocatore nel trovare il modo di superare i passaggi più ostici creando nuovi percorsi grazie ai pochi strumenti in nostro possesso, come corde e scale. Man mano che aiuteremo le persone, che la rete Chirale si espanderà, saremo ricompensati con nuovi strumenti che ci agevoleranno nella nostra missione, permettendoci ad esempio di costruire ponti e strutture, a patto di avere i giusti materiali. Nonostante questi upgrade siano necessari per la nostra sopravvivenza, semplificandoci di molto la vita, ad ogni aggiunta qualcosa si perde.

Svanisce quel senso di insicurezza delle prime ore, del futuro incerto e pieno di difficoltà. L’introduzione dei mezzi, prima semplici moto, per poi arrivare ai ben più durevoli autocarri, permette di spostare molti più carichi, soprattutto in sicurezza. Nel gameplay fanno la loro comparsa anche varie trovate che vanno a definire un titolo difficilmente collocabile in un genere specifico. Ad esempio Sam dovrà fare sempre i conti con il vigore, la stamina, che ne determina l’andamento e la stabilità, ed una volta consumata perderà l’equilibrio perdendo tutto il carico sulle proprie spalle, o la durabilità degli oggetti se esposti a sollecitazioni o alla cronopioggia. L’avanzare del gioco proporrà varie soluzioni a queste “problematiche” che con il tempo passeranno quindi in secondo piano.

Lo stesso dicasi per le sezioni stealth contro le CA, si andranno a perdere man mano che Sam sbloccherà un vero proprio arsenale basato sull’uso del suo sangue, un reagente in grado di mettere fuori gioco le CA. Gli scontri però non riescono a trasmettere il giusto feeling, anche a causa di una IA non proprio brillante. Ed è forse questo uno degli aspetti più deludenti di Death Stranding, ovvero quello di perdere qualsiasi senso di sfida, quella sensazione di pericolo della quale invece è pregna la prima parte del gioco. La splendida messa in scena degli scontri, perfetti sul piano stilistico, passa in secondo piano quando capiremo le loro meccaniche, quando scopriremo il trucco che si cela dietro loro. Ad esempio se individuati dalle CA, queste attiveranno una pozza di catrame che ci inghiottirà se non ci dimeneremo dalla presa del nemico. Ecco, in questo caso basterà uscire dall’area di pericolo ed eliminare in un solo colpo le CA immerse per far terminare la fase. E nonostante questo avvenga circondati da altre CA, l’intelligenza artificiale è fin troppo banale e poco stimolata da reagire in maniera adeguata.

Lo stesso dicasi per le CA più imponenti, ipotizzando di venire catturati dalle prime durante l’agguato. Anche in questo caso, sebbene qua il nostro nemico voglia farci la pelle, basterà uscire dall’area catramosa per terminare lo scontro. Durante l’avventura avremo a che fare anche con i Muli, ex corrieri diventati ora predoni, ma che come le CA  non riescono a rappresentare un problema tangibile, né per Sam, né per noi stessi.

Difetti, piccoli scivoloni che da una personalità sempre attenta al dettaglio come Kojima lasciano a tratti interdetti. E di dettagli il gioco ne è pieno, anche troppo, rendendo saturo il gameplay di orpelli talvolta relativamente utili al nostro fine. E imparerete a scoprirli sulla vostra pelle, ora dopo ora, mentre vi addentrerete sempre più nel cuore dell’America.

Uno, nessuno e centomila

Ma se da una parte il creatore di Metal Gear pecca su quello che doveva essere uno degli aspetti cardine del suo gioco, il vero “tocco di Kojima” lo troviamo nel Social Strand System, una modalità online integrata nell’avventura di Sam. Superato il primo nodo della rete, sarà possibile accedere al Social Strand System, un sistema che permette di interagire in maniera asincrona con altri giocatori. Un multiplayer che non prevede l’interazione diretta delle persone ma una più passiva. Per capire il concetto prendete per esempio quello di Dark Souls, la possibilità di lasciare messaggi, ma espandetelo anche alle strutture costruibili, come generatori, cassette della posta o addirittura bunker e veicoli. Così facendo, attivando il terminale della zona esplorata si renderanno visibili anche le strutture degli altri giocatori. Il tema della connessione quindi viene proposto ad un livello ancora più elevato, e il tutto visto in chiave social, con tanto di “like” da affibbiare per dimostrare la nostra gratitudine nel ricevere aiuto.

Sarà possibile stringere contratti con gli altri giocatori, così da congelare il loro contributo all’interno della loro partita, o ancora recuperare i carichi persi dagli altri consegnandoli al loro posto o passandoli ad un altro giocatore, in una sorta di staffetta della solidarietà. Il Social Strand System è forse l’elemento ludico più interessante di Death Stranding, che riesce ad introdurre qualcosa di realmente nuovo in questo ambito, e del quale siamo convinti in molti d’ora in poi prenderanno spunto.

Ma se il mondo di gioco si “evolve” e popola di strutture da utilizzare per semplificarci la vita, dall’altro lato abbiamo una disarmante semplificazione delle nostre partite, trovandoci sui percorsi da affrontare vari aiuti piazzati in maniera più o meno strategica. È vero che nessuna partita sarà identica ad un’altra ma è proprio il fatto di sapere che troveremo una strada già battuta, specie dopo 30 o 40 ore di gioco, ci spingerà ad abusare degli aiuti ricevuti, magari rinunciando a spendere tempo e risorse nel crearne di nostri. Anche la “pisciata” di Sam pubblicizzata nelle scorse settimane altri non è che un buon specchietto per le allodole, e il modo per creare dei punti dove rigenerare la propria salute.

Il vero problema della mappa di gioco risiede nella sua immensità, nella quale si nota una vuotezza palpabile. Probabilmente tutto è dovuto ad un fattore di trama e giocoforza l’assenza di una qualsiasi altra attività al di fuori di quella della consegna dei pacchi è in qualche modo giustificata. Ma così facendo ogni attività fuori programma, ogni detour dal nostro obiettivo non viene premiato, scoraggiando così i giocatori a visitare il mondo di gioco e traducendo il tutto in una perdita di tempo prezioso.

Anche se la storia regge dall’inizio alla fine, riuscendo tutto sommato a mantenere un buon ritmo, nonostante i tempi più che dilatati fra un avanzamento e l’altro, il gioco trova sempre un modo per allungare il brodo, specie nelle parti finali. Ritrovarsi a quasi 50 ore a compiere l’ennesima consegna, con lo stesso modus operandi è forse l’elemento più destabilizzante di tutto Death Stranding. Alcune missioni sono interessanti, spesso continuano in più passaggi e la loro storia viene approfondita attraverso una serie di messaggi ed interviste, che contribuiscono a dare spessore alla narrativa del gioco. Però questo non basta a scrollargli di dosso l’animo della fetch quest, della missione ripetuta dall’inizio alla fine senza il minimo spessore ludico. Anche le consegne differiscono marginalmente tra loro, e in linea generale rischia di pesare negativamente sul giocatore, finendo per risultare noioso nel lungo periodo.

Scivoloni a parte l’America si riserverà sempre una sorpresa, sia questa un paesaggio mozzafiato o l’incontro con uno dei suoi abitati, magari una delle tante guest star, gli amici di Kojima, che hanno deciso di supportare il designer giapponese con diversi camei all’interno del gioco. Anche la parte dei collezionabili presenti, sembra quasi un diario aperto di Kojima, nella quale riversa tutta la sua passione e il suo gusto, elencandoci quali sono state le fonti di ispirazione che l’hanno portato alla creazione di Death Stranding.

Estetica visionaria

Death Stranding è la concretizzazione della visione di Kojima. E questa visione ha un aspetto incredibilmente bellissimo. A dare vita all’America di Death Sranding e a tutti i suoi protagonisti ci pensa il Decima Engine, un motore tanto versatile quanto potente che già aveva avuto modo di dare dimostrazione delle sue capacità tecniche in Horizon: Zero Dawn. Qua Kojima lo spreme come mai prima, regalandoci oggi una delle esperienze visive più emozionanti che il panorama videoludico abbia da offrire. La qualità grafica è perfetta, con una riproduzione ambientale che sfiora il fotorealismo in più di un’occasione. Il lavoro fatto va oltre la semplice modellazione poligonale, che ricalca scorci realmente esistenti e rivendica chiaramente, per l’ennesima volta, questa sua attitudine ai panorami islandesi riprodotti con una fedeltà straordinaria. Ogni singolo centimetro virtuale è caratterizzato in maniera riconoscibile, e dopo diverse ore inizierete a muovervi sulla mappa senza più bisogno di controllare il vostro percorso se non per pianificare il tragitto,spostandovi velocemente grazie ai punti di riferimento naturali. L’attenzione di Kojima per i dettagli sfiora il maniacale, ed ogni istante passato ad esplorare Death Stranding ce lo fa notare insistentemente.

L’immedesimazione totale nel gioco è dovuta proprio alla sua componente grafica che non smette mai di stupirci. E non lo fa nemmeno quando entrano in scena le CA, con una transizione video che accentua la loro venuta e la pericolosità della cosa, così come l’influenza che hanno sull’ambiente con il loro manifestarsi, che inghiottirà tutto in un mare di catrame, dal quale sembra sempre impossibile riemergere.

La qualità grafica poi compie un’ulteriore balzo in avanti quando ci soffermiamo ad ammirare i volti dei protagonisti, riproduzioni a tratti migliori degli originali, con una fedeltà visiva che ha del disturbante. Dietro a Death Stranding c’è tanta tecnologia e lo si percepisce dagli alti livelli toccati nel dare vita proprio ai personaggi. Oltre a Reedus e Mikkelsen, troviamo anche Lea Seydoux (La Vita di Adele) nella parte della misteriosa Fragile, pure lei un corriere dotata di poteri Dooms, e Margaret Qualley, nuova leva hollywoodiana vista recentemente in C’era una volta a…Hollywood, l’ultimo film di Tarantino. Sa di riscatto invece il ruolo di Troy Baker (Revolver Ocelot in MGS V e Joel in The Last of Us), per anni voce di alcuni dei personaggi più amati del panorama videoludico, qua di fronte alla telecamera virtuale, mettendoci letteralmente la faccia nell’interpretare Higgs, uno dei villain di Death Stranding. Ci sono poi le “comparsate” di Guillermo del Toro e Nicolas Winding Refn che nonostante il ruolo chiave che ricoprono i rispettivi personaggi, ne prestano solamente il volto, affidando la recitazione ad altri.

Recitazione che come potete immaginare (e capire, viste le parole spese in apertura) tocca livelli altissimi di emotività, con il risultato di essere di una potenza inaudita e di catturarvi, facendovi dimenticare a tratti di trovarvi di fronte ad un videogioco piuttosto che un film.

E proprio per la bravura degli attori coinvolti, sebbene sia presente un ottimo doppiaggio italiano, il nostro consiglio più spassionato è quello di selezionare senza starci a pensare troppo l’audio originale inglese, per un’esperienza quanto più fedele al pensiero di Kojima.

 

Death Stranding è disponibile dall’8 Novembre su PlayStation 4, arriverà su PC l’anno prossimo.