Il 2 Ottobre di quest’anno è stata pubblicata su La Repubblica tanto nella versione cartacea, quanto in quella online, una recensione dell’ultimo film di Todd Phililps, firmata da Emiliano Morreale.
L’articolo ha scosso l’attenzione di molti, non tanto per il suo significato complessivo, quanto per un trafiletto estratto e ricondiviso sui social recitante le seguenti parole: “Alla fine, però, si va a finire nella psicanalisi da quattro soldi: Joker è diventato cattivo perché la mamma non lo amava.”
Lo stimolo a scrivere questo articolo non nasce né da un auto-attribuito compito di difendere film o personaggio in quanto appassionato di entrambi i mondi in cui compare, ma nemmeno dalla volontà di procedere a un dissing del signor Morreale, che se scrive su Repubblica, mentre io mi diletto a dire la mia quando la cosa più mi aggrada, una ragione ci sarà.
No, la voglia di buttare giù qualche parola viene da un sentimento del tutto personale. È il sentimento di chi più o meno direttamente si sia trovato a scorgere il volto della sofferenza, quando questa non necessita di alcuna ferita o perdita di sangue.
“Joker è un film che solo chi ha sofferto può capire veramente”. Josh Brolin ha scelto queste parole per descrivere la pellicola. Non concordo con l’esclusività imposta dall’affermazione, ma sicuramente mi ritrovo nel concetto di fondo. Credo invece che Joker sia un film in grado di aiutare chiunque abbia sofferto a spiegare cosa significhi quel dolore a chi abbia avuto la benedizione di non doverlo mai incontrare.
Joker è un film, e in quanto tale può essere liquidato in tre, quattro paragrafi così come fatto da Repubblica nella sua recensione (con la quale mi trovo, peraltro, d’accordo su diverse osservazioni tecniche). Joker è però anche una storia, e per questa non bastano due righe, francamente, strafottenti.
Voglio provare a dimostrare quello che ho già detto poco sopra. Voglio provare a spiegare i dettagli, le piccolezze e le attenzioni che il film propone, senza somministrare, e cercare con esse di trasmettere quel senso contorto che giustifica il dolore.
Cerco di rimandare la vostra memoria alla scena che segue il primo incontro tra Arthur Fleck e la sua vicina di casa. Lo vediamo camminare irrequieto per strada, cappuccio sulla testa e andatura sostenuta in direzione della banca di Gotham, ripresa dal fianco.
Ora, spero possiate ricordarlo, poco prima di attraversare, Arthur viene quasi urtato da un taxi che gli taglia la strada. A questo punto del film abbiamo già stabilito una connessione con il personaggio, conosciamo le sue insicurezze e la sua condizione patologica. È naturale empatizzare con questo minuscolo passaggio e cogliere quel “taglio di strada” come l’ennesima umiliazione dell’uomo, così come deve averlo vissuto Arthur stesso. Ogni piccola cosa può trasformarsi in un nuovo pugnale nel cuore, quando quel cuore è ormai ricoperto dai manici dei coltelli precedenti.
Poco dopo l’attraversamento della strada, ho avuto la fortuna di lasciar indugiare lo sguardo nell’angolo sinistro dello schermo. È in quel momento che possiamo vedere un uomo in giacca e cravatta, perfettamente ordinato e apparentemente equilibrato, subire l’identico trattamento appena sopportato dal futuro Joker. Non può essere una scelta casuale. Morreale ha ragione, a mio avviso, a dire che questo film può vantare un’estetica di valore, senza però dimostrare uno stile immediatamente attribuibile all’autore. Todd Phililps non è un novello Scorsese, ma questo non lo ferma dal dimostrare il talento nel raccontare moltissimo attraverso un piccolo dettaglio. Tutti a Gotham si vedono tagliare la strada dai taxi. Non è un attacco personale. Ma l’approfondimento svolto fino a quel momento sul carattere di Fleck non fa altro che raccontarci la stessa bugia in cui Arthur, mi sento di voler dire, crede in quell’istante: che anche il tassista lo disprezzi come individuo.
Quando è una malattia a dettare il tuo prossimo pensiero, a ritmare le pulsazioni del cuore, a paralizzare il tuo corpo, non ci sono “fatti forza” che tengano. E, di nuovo, il film questo lo dice, solo con altre parole.
“La cosa divertente delle malattie mentali è che la gente pretende che ti comporti come se non ce l’avessi.”
Riporto a memoria una battuta scritta sul taccuino del wanna-be comico, protagonista del film. Questa “battuta” non sta solo raccontando una gigantesca verità circa l’atteggiamento comune riservato tutt’ora nei confronti di chi soffra di depressione, qualsiasi sia la sua forma, ma ci fornisce una importante chiave di lettura di qualcosa che vedremo solo ben più tardi nella pellicola.
È Arthur a scrivere quelle parole. Lui le conosce e ne comprende il significato. Nonostante questo, è lui stesso a soffocare la madre per qualcosa che fece quando le (terribili) decisioni prese in gioventù le erano imposte proprio da una ineluttabile malattia mentale. Arthur è malato. Conosce la malattia, ma è evidente che la riconosca solo in se stesso. O meglio, è evidente che la malattia stessa non gli permetta di osservare gli altri come vorrebbe essere osservato lui stesso.
Ciò che più demoralizza dell’articolo pubblicato da Repubblica è la sufficienza con cui viene liquidata la cura con cui il film osserva la complessità della depressione.
La lettura data è, peraltro, sbagliata nei fatti. Joker non diventa “cattivo” perché la madre non lo amava.
Arthur diventa malato per un congiungersi di cause, tra le quali la carenza delle dovute cure parentali.
Il malato diventa cattivo perchè nessuno, nemmeno la sua psichiatra, sembra volerlo ascoltare o almeno dimostrare di tenere a lui.
Il cattivo diventa Joker quando l’unico modo per sentirsi concreto e, magari, amato è dimostrare di essere il volto di quel dolore sociale, di quella malattia mentale, di cui Gotham è la vittima.