M. è probabilmente il bambino più problematico della classe di mia madre. Di origini pakistane, se la cava più che dignitosamente con la lingua, nonostante la forte balbuzie. Quando il mondo era ancora qualcosa di prevedibile, non passava giornata senza che mia madre lamentasse l’ennesimo colpo di testa di M.: “Oggi ha picchiato un compagno sulla nuca perché non gli dava le sue carte”, “Giocando a calcio faceva falli in cortile, annunciandoli con orgoglio”, “Ha detto di aver dimenticato i compiti della settimana nel quaderno a casa, mentre il quaderno era nello zaino semplicemente senza nulla di scritto sopra”. Vado a memoria e integro di fantasia, sia chiaro. Ma la sostanza resta quella.
Mia mamma ama il suo lavoro. Ama vivere un costante martirio in favore di futuri adulti che, in larga parte dei casi, difficilmente le daranno il credito che merita per la loro formazione. Forse ama essere quel benefattore silenzioso, o semplicemente essere una madre in ogni situazione. Dare tutto, senza chiedere mai una degna retribuzione che nessuno potrebbe veramente permettersi. Una retribuzione sicuramente nemmeno vicina a quella garantitale dallo Stato, ma questa è tutta un’altra fiaba.
Attualmente sta accompagnando una seconda elementare (7/8 anni in media), è sulla soglia dei sessant’anni e come minimo le spetta ancora finire questo ciclo e intraprenderne uno e mezzo ancora. Parafrasando, arriverà il giorno in cui a sessantacinque e passa anni dovrà ripartire a guadagnare la fiducia e il rispetto di bambini di 6 anni.
La scuola in cui insegna la vedo ogni giorno dalla finestra di camera mia. È la scuola elementare che frequentai io stesso, ovviamente in una classe diversa da quella che (per coincidenza) mia madre gestiva in uno scalare di anni scolastici paralleli. Quando conoscevo i miei compagni in prima C, lei conosceva i suoi allievi in prima A.
Io sono uno di quei buonisti che preferisce conoscere le persone, prima di dare un giudizio sulla base dell’inno nazionale che cantano. Gran parte di questa deviazione nacque indubbiamente dal quartiere in cui vivo, lo stesso in cui ho conosciuto i miei primi colleghi e amici.
Oggi la percentuale di allievi stranieri supera spesso la metà delle composizioni delle classi, e non è affatto raro incontrare situazioni famigliari veramente complesse, magari tristi, o anche solo castranti barriere linguistiche. Mi è sempre parso di cogliere che i bambini, di per sé, sono e restano un grumo di energia e difetti, nei quali solo un occhio allenato può scorgere un talento e sintetizzarne un adolescente più consapevole, così come l’ostrica filtra la sporcizia trattenendo solo la perla. Il vero dramma sono quasi sempre i genitori, talvolta irrecuperabilmente diseducati alla vita civile, talaltra tristemente sconnessi dalla realtà. È in questa seconda categoria che ricadono i genitori di M.
Il padre mi è raccontato come un assiduo lavoratore. Un “bugia nen”, direbbero i miei nonni. Purtroppo una grande propensione al lavoro non comporta necessariamente la capacità di essere padre. Forse le punizioni più inutili, l’errato collocamento delle priorità e i pianti ai colloqui con gli insegnanti soffocano un grido di disagio di qualcuno che vorrebbe il bene dei propri piccoli, ma che si ritrova come una fragola nella bagna caöda a dover confrontare le esigenze di un mondo moderno con l’insindacabililtà delle proprie tradizioni d’origine. La mancata menzione della madre non nasce da misoginia, ma rispecchia ciò che le insegnanti di suo figlio sanno di lei.
Ora, mia madre e tantissime altre insegnanti nel mondo si stanno interfacciando con questa nuova normalità imposta. Serve fare ciò che si faceva fino a ieri, ma serve farlo con metodi nuovi. Metodi non stabiliti. Metodi non insegnati. Metodi che richiedono mezzi che mancano e esperienza che non si sapeva di dover avere.
Ma fino a qui tutto bene… Gli insegnanti si facevano il culo (si può dire culo?) già prima e sono, quasi tutti, pronti a farselo ancora. Il problema è che il lavoro di un insegnante può essere preparato con la cura con cui si fece la Cappella Sistina, ma non vale nulla se non c’è nessuno a goderne.
La scuola elementare di cui fui allievo, amministrativamente disastrata, è riuscita a recuperare qualche (insufficiente) computer, in modo da poterli prestare ai bambini più in difficoltà. Misura lodevole, per carità. Ma dare un computer a un bambino di 7 anni, seguito da genitori che a malapena parlano la lingua del Paese in cui risiedono, equivale a dare a me il miglior elicottero del mondo. So cosa dovrebbe fare, so imitarne il rumore, ma da qui a farlo partire ne passa..
Questa mattina, e arrivo alla conclusione, ho sentito con la coda dell’orecchio (l’ho appena inventata? Dopo controllo..) mia mamma rivolgersi a M. tramite una videochiamata su Whatsapp. Rapito dalla curiosità di vedere in volto il famoso demone, mi sono sporto in salotto per sbirciare.
Nello schermo un bambino caffelatte, occhi di qualcuno troppo sveglio anche per il suo stesso bene, cappellino bianco con visiera girato al contrario (che un po’ gli invidio perché fa molto anni ‘90 e io i cappelli non li ho mai saputi portare, a prescindere dal lato).
Bello. Bello come il Sole.
“Non farti fregare, Giacomo” mi ha detto una vocina nella testa (di questa novità da quarantena parleremo magari un’altra volta.. ndr). “È una carogna qual bambino, e tu lo sai.”
Mia madre stava cercando di far partire una riunione su Meet con lui, in modo da fare una lezione sulle tabelline.
Mia madre. Che fino a ieri non sapeva cosa fosse un sistema operativo, un motore di ricerca o un formato .rar, ma che dopo ore di autoformazione dispensa consigli alle colleghe che Aranzulla scansati.
Non solo stava cercando di far partire sta maledetta lezione, ma cercava in parallelo di far attivare a un bambino di 7 anni, balbuziente e pakistano l’hotspot sul telefono di sua madre.
Ho pensato di dare una mano e parlare direttamente con M.
Subito mi ha sorriso, ma contenendo un evidente imbarazzo dietro a una infantile maschera di orgoglio. Insieme siamo riusciti ad attivare l’hotspot, facendogli seguire passo passo le mosse, inquadrando il mio telefono. Poi abbiamo cercato Meet, non senza spendere diverso tempo in una sorta di “acqua-acqua-tiepidino-fuoco fuoco!” per trovare i tasti giusti sul laptop ricevuto in prestito.
M. era attento, coinvolto, interessato. A volte mi faceva impazzire, non tanto lui, ma il pensiero di quanto sinceramente avrei voluto essere nella stanza con lui e abbracciarlo per lo sforzo intellettuale immenso che stava affrontando. Mi faceva un po’ pena, mentre mi rendeva fiero.
Siamo giunti sulla schermata della lezione, pronti a farla partire. Tempo impiegato? Non meno di un’ora. Conferma. Avvia.
Nulla.
Nulla di nulla. Mia madre in un millesimo di secondo ha richiamato M. all’ordine e ha iniziato a interrogarlo con dolcezza sulla tabellina del 4.
Io ho sentito lo stomaco bucarsi e il retro degli occhi gonfiarsi. Tre ventate di calore nel petto. La prima: egoistica frustrazione. La seconda: rabbia per coloro che credono che gli insegnanti non stiano facendo nulla di che in questi giorni. La terza: una pena sconfinata mista alla consapevolezza che, senza mia madre, a quel punto sarei rimasto imbambolato senza sapere come continuare, costretto a vedere quella carognetta ancora sorridente e speranzosa.
M. magari non riuscirà mai a sfruttare al meglio i suoi talenti, forse nemmeno a scoprirli.
Non ci riuscirà a causa di una famiglia impreparata a seguire la sua istruzione, a causa di insegnanti non adeguatamente aggiornati, a causa di strumenti mediocri o del tutto assenti o magari, dulcis in fundo, a causa del colore della sua pelle. Mi fa male aver visto tanta voglia di fare, tanta solarità, nonostante le pareti ingiallite e sapere di aver fallito nel permettergli di seguire una lezione che era chiaro avesse voglia di fare con la sua maestra. Mi fa male sapere che tutto ciò che lui potrebbe essere si mostri, per ora, solo come un bambino incatenato dagli adulti al pavimento.
M. è solo uno dei ventidue allievi di mia madre.