Era necessario disturbare dopo vent’anni uno dei film di culto più caratteristici degni anni ’90?
No.
Esattamente come non lo era riesumare una saga superata da almeno un paio di generazioni come Mad Max.
Si può accostare questo Trainspotting 2 alla cosiddetta crisi di idee della Holliwood contemporanea?
Non oserei farlo.
C’è una sostanziosa differenza tra lo sfruttare icone culturali, come gli Xenomorfi o gli Acchiappafantasmi, e la decisione di un autore di riprendere in mano una sua creatura. Solo Danny Boyle poteva girare Trainspotting 2; solo George Miller poteva resuscitare Mad Max.
La prima volta che vidi l’originale Trainspotting lo feci più per la celebrità del titolo, piuttosto che spinto da una passione per il cinema che ancora doveva alzare la testa. Mi piacque, ma nulla più. Quando poi anni dopo decisi di dover dare un’altra chance a qualcosa che probabilmente non avevo compreso, rimasi folgorato. Lo amai.
Sulle note finali di “Born Slippy‘ tutto ciò che mi passava per la testa era: “Non finire. Andiamo avanti ancora un paio d’ore”.
Trainspotting 2 è la risposta a quell’esigenza. È ciò che segue lo schermo nero e l’immaginaria scritta: “20 anni dopo”.
In quest’ottica il nuovo film, pur non raggiungendo certamente i livelli del primo, si è rilevato un film da amare altrettanto. Le rughe dei protagonisti, la pancetta, la carenza di capelli sono il risultato di vent’anni di attesa per girare questo ‘secondo tempo’, un realismo che mai nessun trucco potrà raggiungere. Ogni riferimento più o meno esplicito a ciò che è stato non può percepirsi quale esclusivo specchietto per le allodole. Non si può trovare ridondanza in qualcosa che hai visto nelle prime battute di questo ipotetico, lunghissimo film.
L’impianto narrativo cambia, mostrando ancora una volta come le due pellicole siano senza dubbio suscettibili di allacciamento tra coda del primo e testa del secondo.
Dove nel precedente capitolo la narrazione era dipendente dal racconto di Renton (Ewan McGregor), ora la stessa si trasla su ricordi e fogli di carta, permettendo alla telecamera di staccarsi dal protagonista per seguire liberamente le vicende di ogni personaggio.
Ora è permesso visitare l’intimità di ognuno dei caratteri indimenticabili del primo film, lo spettatore non è più vincolato alla sola versione di Rent-boy, costantemente presente come narratore fuori campo nel primo Trainspotting. L’adulto Mark, che raccontava la sua giovinezza da tossico, ci viene mostrato in volto oggi con tutti i suoi affanni, rimorsi e acciacchi.
Il mondo è cambiato senza quasi cambiare per niente, così come quei ragazzi sono mutati nel fisico restando identici a sé stessi. L’età adulta acuisce la nostalgìa: il calcio era migliore, i film erano migliori e forse anche la vita da tossico era più serena.
Ora tutti, anche gli outsider della società, hanno scelto il maxi televisore del cazzo, la lavatrice e la macchina. Dove prima c’erano pile di VHS, ora ci sono i DVD. Chi vendeva l’eroina, ora vende droghe sintetiche. Niente cambia davvero, magari muta, si trasforma, ma ogni cosa, ogni persona resta ciò che è sempre stato nel profondo .
La recitazione aiuta, e non poco, a rafforzare questa idea. Begbie (Robert Carlyle) e Spud (Ewen Bremner) in particolare, ritornano sullo schermo senza che venti anni siano riusciti a deviarne in alcun modo l’atteggiamento in scena. I titoli di coda sono la metafora di ognuno dei protagonisti, la riqualificazione urbana si mostra efficace, ma non irreversibile.
La regia, l’estetica tutta del film si lega straordinariamente al capitolo originale. Inquadrature sbilenche, movimenti di macchina citazionisti o totalmente originali. Trovate visive identiche al primo film ed altre completamente nuove e geniali come le di ombre di chi o cosa non c’è più o la proiezione dei ricordi dei passeggeri sul fianco di un’auto .
La telecamera è anch’essa un tossico, ma di certo non quanto nel primo film. Le inquadrature diventano più mature e composte ma capaci di collassare proprio come i soggetti che vengono ripresi.
Boyle riprende i suoi quadri memore dello stile usato venti anni fa, inserendo spesso e volentieri interessanti parallelismi; si pensi ad esempio alla famosa presa dal basso di Rent e Spud a giudizio nel primo film, riproposta qui con Sick-boy al posto di Spud, ma ancora davanti ad un giudizio, molto più attuale e non più giurisprudenziale.
Diversi sono gli omaggi a pellicole più o meno elevate, come almeno un paio a “The Shining” (La testa di Begbie attraverso la parete, visibile nel trailer e il pattern del pavimento dell’albergo riportato sulle pareti di ‘casa Spud’) o anche il richiamo, più o meno voluto, alla scena di canto con gli ultras del Manchester United in “Eurotrip”.
Il montaggio è ancora sovrano tra i comparti tecnici, proprio come lo era nel primo Trainspotting. L’alternanza tra luoghi e persone assume significati ogni volta diversi e i freeze frame tornano in qualità di marchio di fabbrica.
La colonna sonora è di nuovo azzeccatissima e porta ai brividi anche solo accennando mestamente a temi del primo capitolo in luoghi ormai iconici.
Insomma, Trainspotting 2 è il frutto dell’accettazione di un rischio da parte del suo autore. Riprendere personaggi così iconici e svelare dettagli del loro futuro al pubblico significa introdurre un nuovo fascicolo irremovibile nel cassetto dei ricordi dello spettatore. Un fascicolo che prepotentemente prenderà il posto di ciò che la fantasia aveva ipotizzato poter essere il futuro di ognuno di quei ragazzi.
Queste nuove pagine le accolgo con piacere. Sono una bellissima risposta, che non mi serviva, a tante domande.
Danny Boyle si discosta dal suo racconto: pur avendo una grande occasione, non ha tradito.