Unorthodox è la serie che ci mancava
Unorthodox è il titolo della mini serie targata Netflix che da qualche settimana sta facendo parlare di sé, mettendo d’accordo critica e pubblico. Si tratta di quattro episodi tratti dall’autobiografia, uscita nel 2012, di Deborah Feldman: Unorthodox: The Scandalous Rejection of My Hasidie Roots.
La serie è stata creata da Anna Winger e Alexa Karolinski e racconta la storia di Esty (Shira Haas), 19enne di Brooklyn facente parte della comunità chassidica (ebrei ultraortodossi) del quartiere di Williamsburg. Andata in sposa a Yanky (Amit Rahav), col passare del tempo si renderà conto di essere prigioniera di una vita soffocante, dove la sua identità di donna è del tutto annullata a favore di un eccessivo zelo religioso.
Deciderà quindi di partire alla volta della Germania – nello specifico a Berlino – dove anni prima era scappata sua madre, con la speranza di riuscire finalmente a trovare se stessa. Esty infatti non fugge semplicemente per ribellarsi a quel sistema, ma scappa in primis per capire chi è e l’unico modo in cui può riuscirci, è quello di allontanarsi dal marito e dalla famiglia, che sanno vederla solo in veste di madre.
Le vicende si alternano a vari flashback che ci mostrano passo, passo i motivi che hanno spinto Esty a prendere questa decisione, scavando a fondo nella cultura e nella tradizione della comunità chassidica. Il loro credo è particolarmente rigido, in quanto sono convinti che la Shoah sia stata una punizione divina, per questo hanno scelto di vivere seguendo un regime ultra severo, per evitare che la storia possa ripetersi. In questa condizione però, le donne devono vivere in funzione della famiglia e dei figli; non possono leggere, non possono cantare – Esty stessa è costretta a lasciare le lezioni di pianoforte dopo il matrimonio -, l’unica lingua in cui è concesso parlare è lo yiddish. I matrimoni sono combinati e a 17 anni l’istruzione delle giovani si interrompe per prepararle al ruolo di mogli perfette.
La sessualità, che in questa visione è un tabù, e il matrimonio più in generale, hanno come unico scopo quello di salvaguardare la riproduzione e non è previsto alcun tipo di altro piacere fisico. Le famiglie stesse si intromettono nel rapporto tra gli sposi per assicurarsi che tutto vada come previsto. Ma Esty non è preparata, come di contro nemmeno Yanky, il quale è impacciato e insicuro nell’approcciarsi alla moglie. L’ansia delle aspettative si riverserà sulla ragazza, la quale avrà sempre più difficoltà nei suoi momenti di intimità col marito che invece di aiutarla la colpevolizza. Ad aumentare il suo senso di inferiorità ci pensarà la madre di Yanky che le ricorda faccia a faccia che il suo unico compito è quello di far sentire suo marito un Re a letto, ma ciò non significa che lei sarà la Regina. Il suo ruolo si riduce a quello di mero “recipiente”. La frustrazione è talmente alta che, nonostante la paura e la solitudine gravino interamente su Esty, pur di non piegarsi e apparire debole, imporrà al marito di farla rimanere incinta, costringendolo ad un atto sessuale tutt’altro che piacevole.
Quando Esty arriva a Berlino, si sentirà completamente estraniata dal modo di vivere così diverso dal suo. Lo si vede, ad esempio, da come si approccia al gruppo di coetanei con cui farà amicizia. Infatti, seppur il racconto si svolga ai giorni nostri, Esty sembra che provenga da un’altra epoca. Teneramente, ci ricorda un po’ com’era Undici all’inizio di Stranger Things.
Passo dopo passo però è come se rinascesse una seconda volta, e finalmente riuscirà a vedere il mondo con occhi diversi; niente più calze spesse due cm ma jeans, rossetto e feste nei pub. Il suo corpo non dovrà più essere fonte di peccato, qualcosa che deve essere purificato, ma l’essenza di sé. Via anche la parrucca, che finora nascondeva i capelli, considerati forma impura di seduzione, qualcosa da nascondere, che le erano per questo stati tagliati subito dopo essersi sposata.
Unorthodox è un piccolo ma potente gioiellino che si fa portatore di un messaggio forte, reso indimenticabile anche dalla straordinaria interpretazione di Shira Haas, sull’importanza all’autoaffermazione di sé.
La serie ci trasporta in una dimensione in cui, forse, facciamo fatica a immedesimarci e a capire i tanti meccanismi che la regolano, perché lontana da noi, ma ci apre un mondo e ci lascia con tanti spunti, quanto mai importanti, su cui riflettere.