In concomitanza con l’arrivo delle candidature per la prossima e incombente edizione degli Oscar, decido di ritagliare del tempo per infilarmi nella prima sala più vicina, in modo da assistere alla proiezione del nuovo prodotto di Martin McDonagh (senza nemmeno aver mangiato cena, ndr.).
Tra le stilettate dei crampi da fame, e il lontano echeggiare di un senso di colpa per il tempo rubato allo studio, mi siedo in una sala destinata a riempirsi ben di più di quanto mi aspettassi, consapevole soltanto della figura del regista e degli interpreti.
“Un dramma”, mi sono detto. E a me piacciono i drammi, finché non si parla della mia preparazione universitaria.
Dopo “In Bruges” e “7 Psicopatici” sapevo di potermi aspettare qualcosa di quantomeno soddisfacente, corroborato dalla mia affinità con il genere, ma sempre con un pulsante senso di colpa studentesco in fondo al cranio.
Terminano qui le nozioni personali di chi scrive, con un ultimo e più importante appunto: mi sbagliavo, su quasi tutto.
In ordine, come sopra elencato: il film non è ‘quantomeno soddisfacente’, non mi apprestavo alla visione di un dramma e, in ultimo, la mia preoccupazione di studio era più che superabile.
Nella speranza che nessuno di voi ritenga ‘spoiler’ qualsia cosa sia già carpibile dai trailer rilasciati e dalle sinossi di altri siti specializzati, vi lascio immaginare la sorpresa nello scoprire che dietro alla premessa di una ragazzina violentata e bruciata viva, si apprestava ad intrattenermi una commedia ricca di battute tanto esilaranti quanto intelligenti. Vi lascio infine immaginare la confusione e la soddisfazione del rendersi conto che, il vero spreco, sarebbe stato perdere questo straordinario film in sala, per guadagnare qualche minuto di studio in più e un piatto di pasta in un orario più canonico.
Non posso permettermi di sperticarmi in previsioni assurde circa il risultato del premio più ambito dei prossimi Oscar, in primo luogo perché dei nove film candidati, ne ho visti sin ora soltanto tre, in secondo luogo perché la stesura di questo articolo avviene troppo a ridosso della piacevole visione, in quel momento speciale nel quale le opinioni morigerate si travestono da rituali intorno al fuoco e ballate elfiche.
Resta il fatto che, se mai questa pellicola dovesse andarsene a casa dopo la kermesse con la statuetta per il miglior film del 2018, non ci sarebbe spazio per stupori generali, a meno che una qualche altra pellicola la meritasse di gran lunga di più.
Quello che sicuramente colpisce di più di quest’opera è la perfetta commistione fra tragedia e ilarità, sapientemente modulate dal regista (nonché sceneggiatore) in maniera tale da far ridere sinceramente subito prima, dopo e durante il verificarsi di circostanze terribili.
Non mancano riferimenti (mai forzati) a più di un tema caldo della nostra contemporaneità: dalle varie forme di femminismo, al razzismo, sino al confine tra polizia vessatrice e garante di sicurezza. Ed è proprio su questi nodi che ruota la morale (come se davvero ce ne fosse una) del film tutto, riducibile all’essenziale domanda: cos’è la giustizia?
Cos’è la giustizia? Cos’è “giusto”? Chi può farsi giudice? Quanto, la vita personale, può influenzare l’opinione e le azioni verso terzi?
La stessa legge viene messa in discussione, come per sua stessa natura. Un sistema regolato da fitte normative e codici (inter)nazionali può davvero considerarsi garante di pace e sicurezza, quando il buon senso prenderebbe strade ben più agevoli e immediate? Ma possiamo davvero parlare di “buon senso” quando a parlare sono più le emozioni e gli istinti animaleschi, piuttosto che la ponderatezza e il risultato di secoli di evoluzione giuridica e morale?
Mi accorgo di quanto sarebbe comodo (e sicuramente meno faticoso) scrivere una recensione di sole domande, per quanto possa risultare un filo cacofonica. Per questo mi vedo costretto a scendere in dettagli più specifici in relazione alla trama e alle sue implicazioni.
Lascio quindi coloro che non vogliano ancora proseguire con la lettura con queste brevi considerazioni: non rischiate di perdere l’occasione di vedere un ottimo film in sala, dotato di una sceneggiatura originale (in tutti i sensi), di luci, interpretazioni (in particolare dei tre personaggi principali, ognuno dei quali meritevoli di riconoscimenti) e di una regia totalmente serva della narrazione: mai fuori tema e sempre parametrata nei movimenti e nei tagli agli eventi su schermo.
Proseguiamo allora con qualche doveroso SPOILER.
“Tre manifesti a Ebbing Missouri” è un film che può essere fruito tanto dallo spettatore più smaliziato, quanto da quello con una maggior voglia di ragionarvi su. I pensieri e le considerazioni sorgono in modo naturale, durante l’intera visione e soprattutto dopo, una volta che il quadro si sia fatto completo. Forse ciò che meglio renderebbe onore a questo prezioso prodotto sarebbe cercare, finché la memoria e la fantasia mi supportano, di avanzare qualche spunto di riflessione, senza dare risposte. Esattamente come si comporta la pellicola stessa.
Abbiamo già accennato alle diverse valutazioni proposte dai personaggi in scena in merito alla legislazione intesa in senso molto lato.
Dal film traspare fortemente la (per carità, gia vista..) dicotomia tra giustizia e vendetta. Un duo che la trama trasporta su di sé fino all’ultima scena, senza lasciar, giustamente, intendere allo spettatore quale sarà il reale esito del viaggio verso l’Idaho.
Gli stessi caratteri in scena godono di una scrittura spesso rara, riuscendo a mutare più e più volte davanti agli occhi dello spettatore senza mai perdere di credibilità. Il pregiudizio si fa sovrano: i personaggi hanno nemici per loro quasi ancestrali (LA polizia, I neri, GLI omosessuali..), mentre le persone in sala vengono ingannate e portate a giudicare con una leggerezza che si ritroveranno a voler rinnegare (un poliziotto troppo stupido, ignorante, razzista e violento; un soggetto qualunque che, solo perché inquietante e probabilmente infame, avremmo tutti rinchiuso per l’omicidio di Angela..). L’eterno dramma dell’attribuzione di colpa viene straordinariamente proposto in questa storia, provando a dimostrare ancora che la giustizia necessita di tempo, di preparazione, di distacco e saggezza.
Passiamo magari a evidenziare i rapporti parentali mostrati in scena: non sono sicuramente casuali i tre legami principali tra genitori e figli inseriti in sceneggiatura: una coppia di genitori divorziati, distrutti dalla perdita di una ragazzina, capaci di follie, dolcezza e rancore verso un mondo sbagliato, un Dio ingiusto e una comunità egoista. Genitori che darebbero la loro vita per restituirla alla figlia scomparsa tragicamente, messi in paragone, invece, ad un figlio che ha dedicato la sua intera vita privata ad accudire una madre ormai anziana, che probabilmente lo ama a sua volta con la stessa intensità, senza però rendersi conto di quanto lo stia tarpando e deviando con uno stile di vita e delle idee ormai vetuste e perfino ignoranti. Idee che, on ogni probabilità, nemmeno gli sarebbero appartenute se la sua formazione fosse stata un’altra.
Infine il rapporto tra padre e figli per me più interessante e profondo, nonostante sia quello meno lampante.
Il personaggio interpretato magistralmente da un grande Woody Harrelson ama sua moglie con un trasporto palpabile, e ci basta una rapidissima inquadratura sui suoi occhi sull’orlo delle lacrime per dimostrarci quanto ami la sua stessa vita, una vita che pare ovvio cederebbe volentieri per ciascuna delle sue due figlie. È per queste evidenti verità che si eleva a picco dell’intero film la lettura dei pensieri lasciati alla moglie, una volta l’aver posto fine ai propri giorni.
La lettera è lucida, chiara. Consapevole tanto quanto, nonostante l’opinione generale, molte persone suicide si trovano ad essere nel loro ultimo momento. È uno smacco per chi denigra una supposta debolezza di chi compia questo estremo gesto, una statuizione lampante e logica che mi permetto di innalzare a uno tra i migliori “elogi del suicidio” che abbia mai visto in un film. È una estrema sintesi, perfettamente accessibile, di un libro straordinario come “Levar la mano su di sè” di Jean Améry (che consiglio a chiunque voglia approfondire l’argomento più che a dovere, ndr.).
È un discorso che, per l’ennesima volta nella storia, restituisce al suicida la dignità che merita, sradicando la posticcia debolezza che l’opinione comune puntualmente ci appiccica sopra con sufficienza.
Le considerazioni potrebbero essere tante altre, è chiaro, ma come dicevamo all’inizio: “Tre manifesti” può essere una piacevole esperienza sia per lo spettatore più distratto che per quello più abituato a sviscerare la mentalità e i contenuti proposti da un autore.
Concedetemi solo un’ultima libertà: guardate questo film dove e come meglio preferite, ma se decidete di farlo con distrazione e superficialità, almeno rendetevi conto dello spreco.